La sorella del Savi
Condividiamo con piacere il racconto scritto da Elena Bonaccorsi, direttrice del Museo, che è stato selezionato nell’edizione 2024 del Premio Barnaba. Un Museo, una storia, promosso dal Museo Galileo in collaborazione con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, ed è stato pubblicato nel volume Un museo, una storia. I racconti del Premio Barnaba. Edizione 2024 (Firenze, Edizioni Museo Galileo, 2025).
“No, non credo proprio che Paolo Savi avesse una sorella”. Così mi ha risposto gentilmente la guida quando, vincendo l’imbarazzo, ho chiesto se per caso il signore di cui ci stava parlando avesse mai avuto una sorella. Stavo guardando la sua fotografia, in bianco e nero, nella Galleria Storica del Museo in cui i miei genitori mi avevano portato. “Ti piacerà il museo,” mi avevano detto nel viaggio in macchina,“ piace a tutti i bambini. E poi tu sei una raccoglitrice, ci riempi casa di foglie, fiori, ossa di animali, sassi, conchiglie, piume di uccelli. Se non ti ci trovi bene tu, in un museo di storia naturale…”.
Io non sapevo se mi ci stavo trovando tanto bene, dentro un museo. Per il momento guardavo la foto incorniciata di questo signore, questo Paolo Savi così famoso e importante e bravo, che studiava gli animali da vivi e li conservava benissimo da morti, e che era così intelligente che era diventato professore e direttore di un museo, tipo a 25 anni o anche meno. Ma l’unica cosa che vedevo davvero bene, nella foto, era che questo Savi era molto diverso da me. Io, una bambina con le gote rosse e le mani in tasca, e lui con le guance scavate, un abito da vecchio e seduto in posa, rigido come un palo. Io che non sapevo i nomi degli uccelli che volavano sugli alberi in giardino, e li cercavo nei libri senza mai essere sicura di aver trovato il nome giusto, e il Savi che li conosceva tutti… e a qualcuno il nome glielo aveva dato direttamente lui. Questa cosa mi sembrava straordinaria: dare il nome ad un uccello, uno nuovo che nessuno aveva ancora mai visto. Ma sicuramente lo potevano fare solo lui e gli altri signori nelle foto vicine, da seri scienziati come erano. Insomma, non c’era nessun punto in comune e questo, per qualche strano motivo, mi dispiaceva un po’. Così mi era scappata quella domanda, come se una sorella del Savi potesse essere un ponte per avvicinarmi a quel museo, un ponte tra questa scienza severa, questi uomini vecchissimi e la mia curiosità. Peccato.
La guida continuava a spiegare che una volta i musei di scienze erano diversi da come sono oggi, erano stanze in cui tutto era mescolato e si accumulavano cose strane e sconosciute. Beh, allora anche la mia stanza è abbastanza un museo, devo proprio dirlo. Da quando mi ricordo, ho sempre riempito cassetti e mensole di cose curiose e preziose. Blocchi di lava. Piante che sembrano sassi. Una piuma di pavone. Una ammonite dorata. Ho conservato anche le conchiglie con le spine di quando ero piccola ed ero andata in vacanza dagli zii in Sardegna. Tenevo tutto, anche le cose che alle mie amiche facevano un po’ ribrezzo, come gli insetti. Nessuna delle mie amiche, in realtà, impazzisce per le cose che io trovo interessanti, e anche le maestre preferiscono le fotografie sui libri alle cose vere che si raccolgono in terra, che non si sa bene cosa sono e come si chiamano. Io invece raccolgo sassi e trovare il loro nome è come fare l’investigatore: ogni volta mettere un foglietto con il nome vicino a un minerale vuol dire risolvere un piccolo mistero. Accanto ai minerali, in un quadernone, conservo ancora un rametto di papiro dell’Egitto, un po’ acciaccato. Me l’aveva dato un signore all’orto botanico quando aveva spiegato che quello era il vero papiro con cui gli antichi egizi facevano la carta, una specie diversa da quella che si trova nei giardini qui in città. Ehi, questa mi sembrava un’informazione importante, così l’ho portato a scuola. Ma sarebbe stato meglio se me ne fossi stata zitta come sempre: la custode lo ha buttato via perché era bruttarello e tanto “nel giardino della scuola c’era una pianta di papiro molto più bella”. Così, mi è toccato recuperarlo di nascosto dal cestino, e metterlo a seccare tra i fogli di giornale nel mio museo personale, con il suo nome in latino pieno di ipsilon e di esse.
Chissà se al Savi qualcuno aveva mai avuto il coraggio di buttare via un reperto del suo museo. Alla sorella del Savi, se mai ne avesse avuta una, forse un torto così glielo avrebbero fatto senza problemi. Le donne tanto tempo fa non potevano fare NIENTE e non contavano NIENTE, ne abbiamo parlato anche a scuola. Per questo, nelle foto incorniciate qui intorno ci sono solo uomini. Ma lei sarebbe stata intelligente come il Savi, avrebbe avuto quello stesso sguardo diretto e magnetico, e insomma si sarebbe inventata qualcosa per farsi valere.
Mentre io mi distraevo pensando a questa sorella che nemmeno esisteva, sentivo la guida parlare di organi interni degli animali, che il Savi riusciva miracolosamente a conservare. E infatti, qui sullo scaffale si vedeva un enorme cuore. Io, dal vero, ho visto solo il cuore del pollo, quando mamma lo prepara per cucinarlo, infila la mano dentro e tira fuori tutti gli organi: qualcuno lo mette in pentola e qualcuno lo butta via e io provo a capire come è fatto, in quei pochi minuti sul tavolo di cucina. Caspita, quello lì nell’armadio è davvero gigantesco, si capisce bene che è un cuore, ma di chi? Di una giraffa, pare: la guida stava dicendo che il Savi allevava nel giardino del Museo una giraffa che poi è morta e quindi l’avevano aperta per studiarla. Non so cosa mi facesse più impressione, se questo fatto della giraffa aperta o che un cuore potesse essere conservato … per quanto tempo? Ho guardato la data sul cartellino: quasi 120 anni.
Stavo seguendo il gruppo che si spostava docilmente nella Galleria dietro alla guida, guardando scene di animali impagliati che sembravano storie congelate sul più bello, quando ho preso una decisione improvvisa: ho deciso di far finta che tutte queste scoperte le avesse fatte l’inesistente sorella del Savi, una scienziata fantastica di cui per misteriosi motivi si erano perse le tracce ma che mi strizzava l’occhio da dietro le vetrine del Museo.
Prima l’ho immaginata vestita come si vede sui libri, larghe gonne fruscianti fatte apposta per muoversi poco, e ridicoli cappellini per tenere fermi i capelli. E per un po’ effettivamente è stata immobile e con i capelli in ordine, giusto il tempo di intravedere il lampo nei suoi occhi e le mani un po’ rovinate che cercavano cose da fare. Ora, se volevo che andasse alla ricerca degli uccelli della Toscana, a fare la prima carta geologica dei Monti Pisani, e costruire tutti quei gruppi di animali che ancora sembrano scene vere e a studiare tutti i reperti del museo, le dovevo dare un po’ di libertà di azione. Qualcosa tipo: “Questo pomeriggio non aspettatemi per il tè: devo assolutamente capire se questa antilope è una specie nuova e scriverne la descrizione ufficiale” oppure “oggi per favore niente fotografie perché mi metto i pantaloni: vado a raccogliere rocce sopra San Giuliano e non voglio rischiare di restare lassù, impigliata tra i rovi”. Ho ridacchiato all’idea, così la guida ha pensato che stessi ridendo alle sue battute e mi ha sorriso. Ma ormai era fatta: ci ero caduta dentro, immersa nel museo fino alle punte dei capelli, capace di spostarmi dentro e fuori dalle vetrine, di ascoltare e ricordare e viaggiare più veloce di un battito di ali.
Mi immaginavo l’ultimo leone berbero, cacciato senza tregua, che nessuno avrebbe più sentito ruggire sui monti dell’Atlante, e mi si stringeva il cuore. Poi mi specchiavo nella vetrina dove incantevoli creature marine di vetro colorato mi invitavano a seguirle in fondo al mare, agitando tentacoli e aprendo piccole bocche. Disegnavo col pensiero le linee delle conchiglie che qualcuno aveva raccolto, studiato e conservato duecento anni prima, e pensavo che questo qualcuno fosse lì accanto a me, a indicarmene l’eleganza e la simmetria. Guardavo ipnotizzata e poi, per la pena, distoglievo gli occhi dal cinghiale che lottava per la sua vita, con la lancia spezzata nel collo e i cani che gli ringhiavano intorno. E se invece alzavo gli occhi, ecco sopra di me lo scheletro di una balena, uno scheletro vascello che impigliava il filo dei miei pensieri avventurosi.
Insomma, la visita è andata avanti, sala dopo sala, ed è stato bello. È allora che ho deciso che da grande volevo fare la scienziata, la naturalista, la biologa, la geologa, la tassidermista, la collezionista, la veterinaria, la guida, la disegnatrice, la restauratrice, la direttrice di un museo, la fotografa, l’esploratrice e forse ancora qualche altra cosa.
Avevo dieci anni e potevo fare TUTTO.
Me l’ha detto la sorella del Savi.
E.B.

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