La tassidermia, ieri e oggi

L’arte della tassidermia resta ancora oggi il miglior metodo di conservazione dei vertebrati, in particolare pesci, uccelli, rettili e mammiferi. Questa tecnica ne mantiene forme e colori originali, diventando in tal modo un valido aiuto per lo studio della zoologia.

Ocelot.

Va da sé che per ottenere validi risultati il tassidermista deve essere dotato di una grande pazienza, ottima manualità, spirito di osservazione, oltre a non essere sensibile alla vista del sangue e all’effluvio di odori non proprio gradevoli…
Il primo passo consiste nel prendere una serie di misurazioni dell’animale in esame, nonché annotazioni su peso, colore occhi e parti carnose in vista (per i pesci indispensabili le foto di tutto il corpo), data e località di raccolta. Oggigiorno abbiamo in aiuto la fotografia, ma nei secoli scorsi si faceva uso solamente di disegni o pitture. Dopodiché si passa alla seconda fase, che consiste nell’asportare, dopo una o più incisioni, tutta la massa carnosa e lo scheletro dell’esemplare.
Nelle vecchie tecniche si conservavano, attaccati alla pelle, anche il cranio e le ossa degli arti anteriori e posteriori. Attualmente, come vedremo, questi saranno sostituiti da arti e crani artificiali.
Una volta che la pelle risulta completamente libera dal resto del corpo, si passa all’asportazione dei tessuti muscolari degli arti e alla pulizia del cranio. Quindi si asportano cartilagini e grasso, rendendo così la pelle pronta per il prossimo passo: la concia.
La concia consiste nell’immersione della pelle in una soluzione di sali minerali che serve a renderla imputrescibile e inattaccabile da tarme e muffe.
Una volta uscita dalla concia, la pelle è pronta per essere “montata”, come si dice in termine tecnico.

Per questo passaggio, nel corso del tempo, la tecnica si è modificata fino ad arrivare a quella che conosciamo oggi.

L’arte della tassidermia.

Per esemplari della grandezza fino a una volpe, dopo aver ricostruito con creta le parti asportate del cranio, in principio si procedeva con l’armatura in filo di ferro di adeguata misura degli arti, che venivano collegati ad una armatura centrale che comprendeva anche coda e cranio. A questo punto, tramite pinze e attrezzi vari, utilizzando stoppa, truciolo ed altro, la pelle veniva imbottita fino a raggiungere più o meno le dimensioni naturali. Si ricucivano le incisioni, si posizionava l’esemplare su un supporto e gli veniva data la posizione che era stata precedentemente scelta. Aiutandosi con spilli, legamenti vari dall’esterno e con assicelle di legno, il preparatore cercava di ottenere così il risultato migliore allora permesso. Poi si metteva ad asciugare la preparazione, si inserivano gli occhi artificiali e ad asciugatura avvenuta si toglievano tutti i supporti esterni e si passava alla ricoloritura delle parti carnose. Questa era la tecnica detta di “imbottitura a sacco”.
Anche se sul momento questi preparati potevano apparire validi, col passare del tempo la pelle però tendeva ad assorbire l’umidità e a far assumere ai preparati la forma di “tubi di stufa”.

Ecco quindi che arriviamo al passo successivo: avendo già ben chiara la posizione definitiva dell’esemplare da rimontare, utilizzando legno, rete metallica, tessuto di juta (quello da balle), chiodi, colla e gesso, veniva ricostruito un manichino sul quale, dopo una verniciatura per renderlo impermeabile, veniva collocata e bloccata la pelle dell’animale. Una volta essiccata la pelle (possono volerci anche 60 giorni), si ricreavano le parti carnose della bocca e si sistemavano gli occhi artificiali.

Occhi di vetro.

Un notevole passo avanti è avvenuto quando il grande tassidermista americano Carl Akeley (1864-1926) sul finire del diciannovesimo secolo ha ideato il metodo tuttora utilizzato, variando solo il tipo di materiali utilizzati. Questo metodo consiste nel realizzare innanzitutto una scultura in creta dell’esemplare nella posizione desiderata, di seguito si realizzano dei calchi in più parti (una volta si utilizzava il gesso, oggi si utilizza la vetroresina poliestere o le resine epossidiche), si riassemblano le varie parti e all’interno dei calchi si ricostruisce un manichino utilizzando la carta pesta. Tale metodica presentava due grandi vantaggi: la leggerezza e la possibilità di poter ottenere, quando ve ne fosse stata la necessità, anche più di un manichino dello stesso esemplare.

Calco di ippopotamo.

L’ultimo balzo in avanti nelle tecniche di ricostruzione è avvenuto negli anni ’70 circa, quando la cartapesta è stata sostituita dal poliuretano espanso, in varie densità, con la garanzia di avere un supporto della pelle inattaccabile da tarme e tarli, e idrofugo.
Questo ulteriore passo ha consentito la nascita di molte aziende, sopratutto negli USA, che realizzano manichini già pronti in poliuretano, dallo scoiattolo all’elefante, nelle varie misure e posizioni!

Manichini di leopardo.

Tutto ciò ha portato alla diffusione della tassidermia anche a livello hobbistico, e a farla uscire dai confini dei musei o delle poche aziende artigianali. Prima di congedarmi da questo breve excursus, mi sia consentito però una osservazione: a mio parere il vero tassidermista è e resta colui che, partendo da zero, realizza da sé il modello, costruisce il manichino e porta a termine il lavoro. Volendo fare un paragone diciamo che per un esemplare tassidermizzato c’è la stessa differenza che esiste tra un abito preconfezionato e uno realizzato su misura da una sartoria… oppure tra una statua scolpita (Michelangelo!) e una realizzata in uno dei numerosi laboratori, utilizzando un modellino in scala ridotta realizzata dall’ “artista”!!!

R. C.

 

Il Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa, da sempre attento a questa professionalità, ha investito molto nella tassidermia e nel restauro: negli ultimi anni sono stati tassidermizzati nuovi animali provenienti da giardini zoologici e deceduti per cause naturali e soprattutto sono stati recuperati esemplari appartenenti alle collezioni storiche grazie a restauri attenti e precisi.