Il racconto della giornalista

“Il Museo spazio di incontro fra esseri umani”

di Simona Genovali

1. Il museo

Il Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa è uno dei più antichi musei al mondo. Il Museo ha arricchito le sue collezioni nel corso dei secoli e oggi custodisce un patrimonio di enorme valore storico e scientifico. La sede si trova nella splendida Certosa di Pisa a Calci, un edificio trecentesco di inestimabile pregio storico e architettonico.
Il Museo si presenta non solo come luogo “contenitore” di manufatti relativi al settore dell’arte, della tradizione, della scienza e della tecnica ma come un vero e proprio centro di aggregazione e diffusione della cultura. Il Museo ospita infatti eventi culturali ed esposizioni temporanee, realizza progetti di cooperazione con il territorio e gestisce programmi di inclusione rivolti a diverse tipologie di pubblico.
Le attività educative svolte all’interno del Museo, dirette dalla responsabile dott.ssa Angela Dini, in collaborazione con la Cooperativa Sociale Arnera, hanno permesso a due migranti, ospitati nel Centro di Accoglienza di Pisa, gestito dalla Cooperativa stessa, di cimentarsi in attività didattiche e formative, scoprendo una realtà unica e innovativa – quella del Museo, presente sul territorio italiano.
I migranti sono diventati i veri protagonisti dei moduli che si sono svolti all’interno del Museo. Questo ha permesso loro di cimentarsi come “Guide” all’interno del Museo, svolgendo quindi un ruolo attivo e di utilità sociale oltre che didattica, grazie al quale hanno sfruttato al massimo le proprie competenze e risorse personali.

2. Il lavoro di gruppo

Il lavoro di gruppo svolto al Museo ha permesso ai migranti di interagire tra loro e con gli addetti all’interno della struttura, in modo diretto e personale. I ragazzi sono entrati così in contatto con il nostro stile di vita, fortemente diverso da quello a cui sono abituati. Il contatto personale ha favorito lo sviluppo di un sentimento nuovo, di rinascita e di speranza, dove la diversità non è stata percepita come un problema o un disagio, ma come una ricchezza. Il gruppo ha permesso loro di mantenere inalterata la propria diversità, pur facendo parte di un nuovo insieme. Il contatto personale e la vita in comune hanno favorito il processo di socializzazione e integrazione. L’esperienza al Museo ha permesso loro di creare una sorta di legame, sia tra i migranti stessi provenienti da diversi paesi dell’Africa, sia tra loro e il territorio. Quello che è stato apprezzato da tutti i partecipanti al progetto (migranti e operatori della Cooperativa) è stato il lavoro di Gruppo che hanno svolto. Il Gruppo è diventato una seconda casa: uno spazio in cui condividere la propria storia personale, conoscere più da vicino usi e costumi del nostro Paese, praticare la lingua italiana. I ragazzi si sono sentiti accolti, non giudicati e soprattutto non etichettati in base alla loro provenienza e per la prima volta da quando sono arrivati in Italia, si sono sentiti parte di qualcosa di più grande di loro, qualcosa di importante, come se un piccolo seme avesse improvvisamente iniziato a germogliare dopo mesi di stenti e di buio.

La storia di Oudou Youda dal Burkina Faso
E’ appena sorto il sole in Burkina Faso. La pioggia incessante della notte ha lasciato il posto ad un timido sole che spunta tra le nuvole. La stagione delle piogge è giunta al termine e gli abitanti dei piccoli villaggi che sorgono sulle colline, si preparano ad accogliere il vento secco e caldo proveniente dal Sahara.
Oudou è un ragazzo di 23 anni che nonostante la giovane età ha affrontato un viaggio più grande di lui, prima di arrivare sano e salvo in Italia. Ha lasciato che il vento caldo del deserto lo accarezzasse un’ultima volta, prima di salire a bordo di un vecchio motorino, arrugginito dal tempo e dalla sabbia sedimentata sulla carrozzeria e addentrarsi oltre i confini del suo Paese. Un paese, il Burkina Faso, dove l’età media degli abitanti è di 17 anni e dove più della metà della popolazione è disoccupata.
Il Burkina Faso è uno dei paesi più poveri del mondo: essere poveri, in questa parte del mondo, non vuole dire non avere una casa di proprietà o l’ultimo modello di Smartphone disponibile sul mercato. Vuol dire vivere con ciò che il tuo ettaro di terra riesce a darti: fagioli, cotone, arachidi, ortaggi, canna da zucchero. Se riesci a coltivare la tua terra, allora hai speranza di sopravvivere. Emigrare qui è un fenomeno “normale”. Emigrare vuol dire lasciare la propria famiglia d’origine, vuol dire avventurarsi, nel vero senso della parola, in un viaggio che alcuni dicono essere “salvifico” ma che invece il più delle volte porta dritti verso la morte.
Talvolta è impossibile passare il confine a causa dei conflitti con i paesi vicini. Spesso il proprio viaggio si conclude in un paese diverso da quello scelto come destinazione. Finisce quel poco denaro che ti metti in tasca prima di partire, finisce che qualcuno ti ruba quelle poche risorse che hai, promettendoti paradisi che non esistono. Poi scopri che mano a mano che i chilometri aumentano e la distanza da casa si fa più grande, tutto cambia: non solo il paesaggio intorno a te, ma anche le persone, volti di uomini, donne e bambini che non hai mai visto prima e che non sono e non potranno mai essere, la tua famiglia.
Cambiano le etnie, gli usi e i costumi, le tradizioni, la fede religiosa e soprattutto cambia la lingua. Una lingua, che il più delle volte non conosci e allora capisci che quello che senti è solo un suono, qualcosa di estraneo e che se non stai attento sarai fregato di nuovo. Così ti ritrovi in mezzo al mare, insieme ad altri esseri umani, ma in quel momento di umano non c’è nulla. Fa freddo, perché sei partito da casa che il sole era alto nel cielo e il vento soffiava caldo sul tuo viso come un phon acceso alla massima velocità. Succede che qualcuno durante il viaggio ti parla dell’Italia, mentre tira fuori dalla propria sacca una felpa con uno stemma colorato: è una bandiera. E’ la bandiera francese, ma tu non stai andando in Francia, ti dicono, – tra poco arriverai in Italia e li qualcuno verrà a prenderti e ti aiuterà a trovare un lavoro – .
Ecco, che per un attimo, si riaccende quella flebile speranza che aveva illuminato il tuo sguardo e i tuoi occhi, il giorno in cui sei partito da casa e hai salutato la tua famiglia, promettendo loro di tornare presto. Ma anche tu hai barato, perché sapevi che non saresti più tornato indietro. Sai che non potrai farlo anche se lo vorrai con tutto te stesso: non avrai denaro per pagarti un biglietto aereo, non avrai documenti, non avrai amici che potranno aiutarti con la lingua, con quel suono che vorresti fosse familiare e invece è solo un mucchio di “chiacchiere” che non capisci.
Non capisci perché non puoi tornare a casa. Non capisci cosa farai domani, quando il centro di accoglienza che ti ospita ti dirà di andare. Andare, dove ? A casa ? In un altro Paese straniero ? Per mille notti e per mille giorni penserai che forse, l’unico posto dove avresti voluto vivere e morire è il Paese in cui sei nato.

La storia di Ange Anzinze dalla Repubblica Democratica del Congo 
La Repubblica Democratica del Congo è uno Stato dell’Africa centrale. La parte nord del paese, costituisce una delle più grandi aree di foresta equatoriale al mondo. Il paese possiede delle immense risorse naturali, come le miniere di diamanti e di rame e i giacimenti d’uranio, eppure il reddito pro capite è tra i più bassi del mondo. La popolazione vive di agricoltura di sussistenza, allevamento e pesca.
Gli scambi commerciali con il mondo esterno riguardano il cacao, il caffè, il cotone, l’olio di palma, il tè, la gomma, lo zucchero. Le principali produzioni alimentari, destinate al consumo interno, sono la manioca, le banane, le patate, i cereali (riso, mais, miglio) ed i legumi.
E’ lì, da qualche parte, nella zona centrale del paese, dove una vasta area di savana alberata forma un altopiano ricco di minerali, che per 24 anni Ange e la sua famiglia hanno vissuto. A una quarantina di chilometri a nord della foce del fiume Congo, in una zona battuta dagli eserciti di ben sei Paesi africani, dove guerre e ribellioni per il controllo dei giacimenti di oro e diamanti, sono all’ordine del giorno.
I ragazzi come Ange passano la vita cercando di sopravvivere e fuggire da una guerra che dura da oltre 20 anni. Una guerra di cui non si parla, di cui non si conoscono ragioni né torti, né si possono comprendere a fondo le motivazioni, ammesso che una guerra di qualunque genere e tipo, possa averne. Ange è sopravvissuto alla guerra, alle bande armate di milizie non governative, agli ex-militari e ai gruppi tribali che effettuano incursioni e razzie con conseguenti massacri di civili.
E’ sopravvissuto alla malnutrizione, alla mancanza di strutture sanitarie qualificate nel suo Paese. E’ sopravvissuto a chi gli ha promesso che in Italia sarebbe stato più facile vivere. Ange è un ragazzo di 24 anni che parla francese e sta imparando la nostra lingua, un ragazzo che si pone domande su cosa succederà nel suo Paese tra un mese, un anno e cosa sarà di lui in Italia ? Un ragazzo dagli occhi profondi, con le mani piene di tagli, perché Ange ha coltivato la terra, ha scavato, ha piantato dei semi, ha studiato sui libri di scuola ma la sua priorità per molto moltissimo tempo è stata quella di sopravvivere. Adesso in Italia, spera di iniziare a vivere.

 

La voce degli operatori della cooperativa Arnera. Renato Petrone, Isolina Ravenda e Ilaria Morelli.La nostra intenzione non è quella di giudicare: non ne siamo capaci, anche se a volte è più facile sedersi sulla poltrona dei “giudici” piuttosto che su una sedia per guardare e imparare. L’intento non è quello di misurare chi viene da un altro posto del mondo, diverso in tutto e per tutto dall’Italia e dal resto dell’Europa. Non è valutare chi parla una lingua diversa dalla nostra. L’intento non è soppesare le parole, le storie che ogni ragazzo che incontriamo, porta con sé, nella sua memoria e sulla sua pelle. L’intenzione è quella di ascoltare una storia diversa dalla nostra, accogliere chi si è imbattuto in una strada più difficile di quella che abbiamo percorso noi fino ad oggi.
Vogliamo sorpassare paure e pregiudizi – anche se la paura per il futuro resta sempre e comunque – vorremmo fare di più, ci sforziamo di dare il massimo, di restituire anche una sola goccia di umanità nella vita di una persona che di umano ha vissuto ben poco.
Non vogliamo parlare di sfortuna, di destino né d’altro canto vogliamo affidare la soluzione alla fortuna o ad un singolo gruppo politico, ma vogliamo essere noi prima di tutto “umani” e “umanizzati”, protratti e attratti verso ciò che è diverso da noi.
Siamo consapevoli dei nostri limiti umani e personali, sappiamo portare il peso di un sistema che manca di un progetto unitario a livello mondiale per quanto concerne l’accoglienza dei profughi. Sappiamo il peso che questi ragazzi portano sulle loro spalle. Non vogliamo parlare di sfortuna, di destino né d’altro canto vogliamo affidare la soluzione alla fortuna o ad un singolo gruppo politico, ma vogliamo essere noi prima di tutto “umani” e “umanizzati”, protratti e attratti verso ciò che è diverso da noi.
L’integrazione passa attraversa la formazione, un mestiere e una lingua da imparare. L’integrazione non è solo fornire cibo e vestiario. L’integrazione è legalità. Vuol dire prima di tutto dignità per la persona da cui si esige il rispetto delle regole. L’integrazione si attua se riusciamo a fornire competenze linguistiche e lavorative di base. Oltre a fornire loro i beni di prima necessità, li accompagniamo nell’iter burocratico di richiesta asilo, teniamo lezioni di lingua italiana, li affianchiamo in tutto quello che riguarda l’assistenza sanitaria.
Questa esperienza con il Museo fa parte del tentativo di fornire loro gli strumenti necessari per aiutarli a muoversi in modo autonomo all’interno del nostro paese. Ma il lavoro più grande devono farlo loro. Noi possiamo aiutarli e supportarli ma tocca a loro “ricostruirsi” un’identità nuova, che può essere fonte di grande arricchimento e soddisfazione ma anche di grande stress e disagio. Non è mai facile “ri-definirsi”, “ri-costruirsi” soprattutto quando si è lontani da casa.

3. Impressioni personali

Intervistare Oudou, Ange è stata per me un’esperienza umana bellissima. Posso solo ringraziarli per avermi permesso di ascoltare le loro storie, per avermi parlato dal cuore e condiviso con me anche ciò che le parole a volte, possono rendere difficile da raccontare. Mi hanno portato con loro, nelle loro vite, in un viaggio che è soprattutto un percorso di speranza e di fiducia, oltre ogni pregiudizio, oltre ogni confine. Ringrazio le operatrici della Cooperativa per aver condiviso con me dubbi, speranze e l’amore per un lavoro che non è sempre facile eseguire.Ringrazio la dottoressa Angela Dini per la disponibilità, la professionalità e la voglia di creare sempre nuovi progetti e andare oltre un compito puramente tecnico, cercando di lasciare un po’ di sé e un po’ di umanità in ognuno di noi.